Riflesso color pioggia

Scrivo. In questo primo novembre scrivo perché non ho altro da fare. Scrivo anche per sentirmi un po’ meno in colpa di esser stato un altro giorno seduto davanti ad un computer, mentre la vita la fuori se ne va via sotto un ombrello. Scrivo di quanto sia assurdo trovare conforto in qualche pixel acceso, nel fissare un desktop azzurro, senza un pensiero definito. Ascoltando musica senza una logica, come un fiume, un ruscello sonoro che si mescola al calore della pioggia fredda che picchia sulla persiana. Scrivo anche per chiedermi il perché di questo stato di trance, da dove arrivi questa pausa, questa stasi mentale. Sono fermo, col freno a mano tirato alla vita. Scrivo e mi accorgo che non so neanche più scrivere come una volta. Non c’è musica che mi tiri su, non c’è stimolo che invogli qualsiasi azione, non c’è niente. Apatia, assenza. C’è solo la pioggia che batte sul pavimento del terrazzo. Scrivo dell’amicizia soprammobile, circostanziale, di quel valore di cui ci si fregia e ci si vanta, ma di cui si disconosce completamente il significato. Scrivo del gruppo assurdo di troppe persone, ognuna interessata solo al proprio piatto, dei gruppi nei gruppi, del capogruppo e delle ombre silenti. Scrivo del tempo che ci ha fregato tutti: volevamo passasse e ci ha fregato, è passato davvero. Il tempo si è portato via tutto, si è portato via me, si è portato via voi. Ha portato un misero bar, ha portato la discoteca al sabato e la birra in frigo, ha portato l’età dello stand-by, del lavoro qualsiasi, della macchina pagata dal padre, ha portato la passività totale. Sì, forse è così, forse sono qui che fisso il desktop perché non mi va di ridurmi ad uno schifo inumano al gusto di birra, che non mi va di saltellare come un deficiente al buio intermittente per farmi notare, che non mi va di fumare chissà quale copertone per dipingermi da mito agli occhi del mio specchio, che non mi va di sentire canzoni false per cercarmi un ideale altrettanto falso e scaduto, che non mi va di premere l’acceleratore pensando che stavolta ce l’ho fatta e sicuramente ce la farò sempre. Scrivo che forse sono l’unico ribelle, il normale al manicomio, la pecora bianca nel gregge di pecore nere. Mentre fuori piove, mentre il gatto guarda altrove, mentre fisso il desktop azzurro, e tiro il freno a mano.

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